14 Mag Cassazione penale Sez. VI sentenza n. 2265 del 24 febbraio 2000
Testo massima n. 1
L’abuso richiesto dalla norma dell’art. 317 c.p. ai fini della sussistenza del reato di concussione non può essere identificato nella indebita richiesta, rivolta dal pubblico ufficiale al privato, di denaro o altra utilità. Infatti, la semplice richiesta di denaro, ancorché reiterata, integra, nel caso sia rifiutata, il reato di istigazione alla corruzione punita dall’art. 322, commi terzo e quarto, c.p., e, se accolta, quello di corruzione consumata, punito dagli artt. 318 e 319 c.p. La richiesta di denaro rilevante ai fini della concussione è, dunque, quella preceduta o accompagnata da uno o più atti che costituiscono estrinsecazione del concreto abuso della qualità o potere del pubblico ufficiale. Infatti, la costruzione letterale e logica della norma di cui all’art. 317 c.p. prevede l’abuso quale causa efficiente dell’induzione al pagamento, e non come avviene nella corruzione, quale risultato dell’azione delittuosa.
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Testo massima n. 1
La costrizione o induzione che caratterizzano il reato di concussione, non si identificano nella superiorità o nell’influenza che il pubblico ufficiale può vantare rispetto al privato che, per il solo fatto di venire a contatto con chi esercita poteri che possono avere una concreta incidenza sulla sua sfera giuridica, versa in una situazione di soggezione psicologica, in quanto tale soggezione è irrilevante ai fini del reato di concussione. Per integrare detto reato occorrono una costrizione o induzione qualificata, ossia prodotte dal pubblico ufficiale con l’abuso della sua qualità o dei poteri, così che la successiva promessa o dazione indebita è conseguenza della condizione di “metus” in cui la vittima viene a versare, per effetto di tale costrizione o induzione. In sintesi può dirsi che il delitto si sviluppa secondo la seguente successione di azioni causalmente concatenate: abuso della qualità o dei poteri, costrizione o induzione, promessa o dazione.
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