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Cassazione penale Sez. III sentenza n. 601 del 29 gennaio 1997

Cassazione penale Sez. III sentenza n. 601 del 29 gennaio 1997

Testo massima n. 1

Allorquando il reato di maltrattamento di animali viene in evidenza con riferimento a comportamenti che costituiscono l’esercizio di pratiche venatorie, occorre tener conto, oltre che della norma di cui all’art. 727 c.p., come modificato dalla legge 22 novembre 1993, n. 473, anche delle disposizioni che regolano l’esercizio della caccia, di cui alla legge 11 febbraio 1992 n. 157. E ciò non perché le norme della predetta legge si pongano in rapporto di specialità con le norme del codice penale, dato che è diversa la loro oggettività giuridica, ma perché un comportamento venatorio che è consentito dalla predetta legge n. 157 del 1992, ed è quindi considerato lecito, non può integrare gli estremi del reato di maltrattamento di animali, anche se idoneo a cagionare sofferenze agli animali stessi. Infatti, per la scelta non manifestamente irragionevole operata dal legislatore, è stato ritenuto prevalente l’interesse a garantire l’esercizio della caccia, per cui una pratica venatoria che è consentita dalla legge 11 febbraio 1992 n. 157 non può essere punita a norma dell’art. 727 c.p. perché il fatto è scriminato dall’art. 51 c.p., costituendo l’esercizio di un diritto. Ovviamente non ricorre una tale esimente nel caso in cui la pratica venatoria, pur essendo consentita a norma della citata legge n. 157 del 1992, per le sue concrete modalità di attuazione sottoponga l’animale ad un aggravamento di sofferenze che non trovi giustificazione nelle esigenze della caccia.

Testo massima n. 1

La norma ricavabile dal nuovo testo dell’art. 727 c.p. e relativa alla detenzione di animali in condizioni incompatibili con la loro natura non si trova in alcun modo in una situazione di puntuale ed inevitabile contraddizione con la norma della legge 11 febbraio 1992, n. 157 relativa all’uso degli uccelli in funzione di richiami e la sua applicazione non comporta necessariamente ed in ogni caso la disapplicazione della seconda, dal momento che è possibile una interpretazione delle due disposizioni che consenta una coerente ed armonica applicazione di entrambe. È infatti nozione elementare di teoria generale del diritto che l’abrogazione per incompatibilità [ a differenza di quella espressa ] intercorre tra le norme e non tra le disposizioni e che essa si verifica non già quando vi sia una generica non conformità fra nuova e vecchia disciplina, bensì soltanto quando fra le due norme vi siano una contraddizione ed un contrasto puntuali ed irresolubili, tali che l’applicazione di una norma implichi necessariamente ed indefettibilmente la disapplicazione dell’altra, il che sta a significare che è canone fondamentale di interpretazione quello secondo cui l’interprete è obbligato a compiere tutti gli sforzi ermeneutici al fine di salvare la vigenza della norma precedente, ossia è obbligato ad interpretare, fin dove è possibile, nuova e vecchia disposizione in modo tale da ricavarne norme non incompatibili e che solo quando ciò non sia possibile, ossia solo quando in nessun modo l’applicazione della nuova norma consenta anche l’applicazione della precedente, l’interprete stesso possa dichiarare l’avvenuta abrogazione della vecchia norma.

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