Art. 114 – Codice di procedura civile – Pronuncia secondo equità a richiesta di parte
Il giudice, sia in primo grado che in appello, decide il merito della causa secondo equità quando esso riguarda diritti disponibili delle parti e queste gliene fanno concorde richiesta [disp. att. 112, 118, 119].
Le parole ricomprese fra parentesi quadre sono state abrogate.
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Massime correlate
Cass. civ. n. 19050/2017
L'unico rimedio impugnatorio ordinario ammesso avverso le sentenze emesse del giudice di pace nell'ambito della sua giurisdizione equitativa necessaria e pubblicate a partire dal 3 marzo 2006 è rappresentato dall'appello a motivi limitati, ex art. 339, comma 3, c.p.c., nel testo novellato dal d.lgs. n. 40 del 2006, e ciò anche in relazione a motivi attinenti alla giurisdizione, alla violazione di norme sulla competenza e al difetto di motivazione, essendo le stesse ricorribili per cassazione solo in caso di accordo tra le parti per omettere l'appello, ex art. 360, comma 2, c.p.c. ovvero di pronuncia secondo equità su concorde richiesta delle parti medesime, ex art. 114 c.p.c.. (Dichiara inammissibile, GIUDICE DI PACE ROMA, 14/10/2015).
Cass. civ. n. 26985/2009
Il potere di emettere una decisione secondo equità ai sensi dell'art. 114 c.p.c. si differenzia dal potere di determinare, nel processo del lavoro, la retribuzione ai sensi dell'art. 36 Cost., atteso che, nel primo caso, la decisione viene adottata a prescindere dallo stretto diritto e presuppone l'istanza delle parti, mentre, nel secondo, non è necessaria alcuna richiesta delle parti e la decisione viene adottata secondo le norme di diritto alla stregua della normativa vigente, con applicazione, in via parametrica, del contratto collettivo di settore di cui non sia possibile l'applicazione diretta e sul presupposto che la retribuzione di fatto corrisposta si appalesa rispondente ai criteri di adeguatezza e proporzionalità posti dalla norma costituzionale. Ne consegue che la sentenza con la quale è stata determinata la giusta retribuzione è appellabile ai sensi dell'art. 339, primo comma, c.p.c.
Cass. civ. n. 25943/2007
Il potere del giudice di merito di valutare il danno in via equitativa, ai sensi dell'art. 1226 c.c., non è riconducibile nell'ambito della decisione della causa secondo equità, prevista dall'art. 114 c.p.c., che importa, appunto, la decisione della lite prescindendo dallo stretto diritto, laddove il primo consiste nella possibilità del giudice di ricorrere, anche d'ufficio, a criteri equitativi per raggiungere la prova dell'ammontare del danno risarcibile, integrando così le risultanze processuali che siano insufficienti a detto scopo ed assolvendo l'onere di fornire l'indicazione di congrue, anche se sommarie, ragioni del processo logico in base al quale ha adottato i criteri stessi. Non viola, pertanto, l'art. 822 c.p.c. il lodo arbitrale che riconosca all'appaltatore l'equo compenso per maggior onerosità dell'opera previsto dall'art. 1664, comma 2, c.c., non trattandosi di pronuncia secondo equità, per cui non rileva la mancanza di autorizzazione delle parti a decidere in tal senso.
Cass. civ. n. 11072/2001
La richiesta di giudizio secondo equità, ex art. 114 c.p.c., risolvendosi in un atto di disposizione del diritto controverso, non può essere formulata da difensore privo di mandato speciale; il difetto di tale mandato, tuttavia, può essere fatto valere soltanto col tempestivo ricorso per cassazione e non rende appellabile la sentenza ugualmente pronunciata secondo equità.
Cass. civ. n. 3070/1982
Nel mandato speciale conferito al difensore per la transazione della lite non può ritenersi compresa anche la facoltà di richiedere la decisione secondo equità, ai sensi dell'art. 114 c.p.c., poiché mentre la transazione definisce la lite con un negozio in cui si manifesta l'autonomia privata nell'ambito dell'ordinamento giuridico, la pronuncia secondo equità dà luogo a una decisione della controversia con una sentenza che vincola le parti come atto del potere decisionale del giudice.
Cass. civ. n. 3001/1973
Intrinsecamente contraddittoria la sentenza la quale, dopo avere ricordato la richiesta delle parti diretta ad ottenere una pronuncia secondo equità, procede alla ricerca di una soluzione transattiva nella quale si realizzi l'accordo delle parti stesse, ovvero si limiti ad accertare quale sia la volontà delle parti e, in base ad essa, determina il contenuto della pronuncia, affinché questa sia da esse riconosciuta come transazione: ed invero non è logicamente e giuridicamente ammissibile che le parti, nel momento stesso in cui richiedono la decisione secondo equità, stipulino un sostanziale accordo transattivo in relazione alla stessa controversia, perché la transazione, che definisce la lite con un negozio in cui si manifesta l'autonomia privata nell'ambito dell'ordinamento giuridico, e la pronuncia secondo equità, che dà luogo ad una decisione della controversia con una sentenza che vincola le parti come atto del potere decisionale del giudice, sono atti tali da escludersi a vicenda. La sentenza pronunciata secondo equità contiene necessariamente riferimenti espliciti o impliciti alla qualificazione giuridica dei fatti ed alla valutazione giuridica delle loro conseguenze; questi giudizio di diritto, pur non essendo direttamente censurabili a norma dell'art. 360, n. 3, c.p.c., perché il giudice che pronuncia secondo equità non è tenuto ad osservare rigorosamente le norme di diritto sostanziale, possono costituire, tuttavia, le fondamentali premesse logiche della decisione finale di equità, onde questa risulta irrazionale, ingiustificata e sostanzialmente priva di motivazione e come tale censurabile a norma dell'art. 360, n. 5, c.p.c., quando quelle premesse si rivelano del tutto fallaci ed erronee. (Nella specie il giudice del merito, chiamato a decidere secondo equità la controversia tra un conduttore che chiedeva la restituzione del deposito cauzionale a seguito dell'avvenuto rilascio dell'immobile locato ed il locatore, il quale domandava riconvenzionalmente il risarcimento per i danni arrecati all'immobile stesso, dopo avere premesso che la domanda proposta dal locatore esulando dal titolo dedotto in giudizio dall'attore non era ammissibile a norma dell'art. 36 c.p.c.; e che il risarcimento non poteva essere fatto valere per il mancato accertamento preventivo dei danni richiesti, per superare in via equitativa la soluzione che sarebbe derivata da tali premesse aveva dichiarato compensate tra le parti le rispettive ragioni di credito e di debito comprese le spese del giudizio. La Suprema Corte ha rilevato che le premesse esposte nella sentenza impugnata erano entrambe erronee, e che il ricorso ai criteri di equità si esauriva nella mera affermazione della necessità di una decisione equitativa, ed ha accolto il ricorso enunciando il principio di cui in massima).