29 Mar La natura mista dell’assegno divorzile
Con il divorzio – o scioglimento del matrimonio, secondo la dizione del nostro legislatore – il rapporto matrimoniale termina, ossia si scioglie il matrimonio “civile” o cessano gli effetti del matrimonio concordatario.
In realtà il divorzio non comporta, almeno nel nostro ordinamento, un’estinzione assoluta di tutti gli effetti del matrimonio: infatti non soltanto sopravvivono alcuni effetti propri dell’istituto, quali la tutela previdenziale e alcuni diritti successori del coniuge superstite, ma il divorzio fa sorgere delle situazioni giuridiche nuove, tra cui il più importante è l’assegno divorzile.
Nella formula originale dell’art. 5 della legge n. 898/70 tale assegno aveva natura mista, in quanto i presupposti dell’assegno consistevano nelle condizioni economiche dei coniugi, nelle ragioni della decisione e/o nel contributo personale ed economico dei coniugi alla formazione del patrimonio di entrambi. La norma era strutturata nel senso che la sussistenza di uno solo di tali presupposti consentiva al giudice di concedere il diritto all’assegno ad un coniuge, a carico dell’altro . Tali presupposti, come ben si vede, avevano natura e causa diverse: le condizioni economiche facevano riferimento ad una natura assistenziale dell’assegno (con funzione analoga all’assegno alimentare, seppur in misura molto superiore), le ragioni della decisione sottolineavano una funzione risarcitoria o magari sanzionatoria dell’assegno, mentre il riferimento al contributo di ciascun coniuge alla formazione del patrimonio familiare e di entrambi richiamava una funzione compensativa, un po’ come se i coniugi fossero due imprenditori che dovessero regolare tra loro i reciproci rapporti di dare e avere.
Ciascuno di tali criteri presentava non poche problematiche quanto alla giustificazione della causa che lo sosteneva.
Il primo criterio, inteso in senso puramente assistenzialistico, appariva una duplicazione dell’assegno alimentare, che pure si applicava al coniuge divorziato in stato di bisogno; per di più, mentre l’assegno alimentare si fonda sui rapporti che lega – o dovrebbe legare – i membri di una stessa famiglia, e quindi sulla sussistenza del vincolo, l’assegno divorzile presuppone proprio lo scioglimento del vincolo, con la differenza quantitativa che, mentre la misura degli alimenti non può superare quanto necessario per la vita dell’alimentando, la misura dell’assegno divorzile è, per giurisprudenza prevalente, commisurata al tenore di vita precedente al divorzio, quindi ben superiore a tale criterio. Portando tale ragionamento fino alle sue estreme conseguenze, il coniuge divorziato in stato di bisogno avrebbe diritto ad un assegno di entità superiore a quello spettante al coniuge non separato né divorziato che chieda gli alimenti: summum jus summa iniuria.
Anche il secondo criterio richiamato dall’art. 5 L898/70 (nella sua formula originaria) non è scevro da critiche: il riferimento alle ragioni della decisione, infatti, sembra presupporre una funzione risarcitoria o, addirittura, sanzionatoria dell’assegno.
Se il legislatore avesse voluto che l’assegno divorzile avesse questa funzione, questa sarebbe stata una condizione necessaria della concessione dell’assegno, mentre così non è, come sappiamo; oltre tutto tale criterio comporta non soltanto una “colpa” di un coniuge, ma anche la necessità di commisurare l’entità dell’assegno alla gravità di tale colpa, col risultato che riceveva una somma maggiore il coniuge che aveva avuto la “fortuna” di essere stato tradito, o maltrattato, rispetto al coniuge il cui matrimonio era finito semplicemente per incomprensioni caratteriali. Ciò, naturalmente, senza nemmeno prendere in considerazione le difficoltà, per il giudice, di dover monetizzare situazioni di natura non patrimoniale e che, specie nei casi più gravi, non erano effettivamente risarcibili se non in via equitativa. Inoltre, anche in questo caso, come nel precedente, vi è una duplicazione di funzioni: il coniuge che, ad esempio, avesse subito maltrattamenti, ben poteva chiedere ed ottenere il risarcimento dei danni subiti; l’assegno divorzile, in tal caso, si sarebbe aggiunto al risarcimento danni –magari effettuato proprio con un altro assegno mensile- e avrebbe perso la propria causa, già soddisfatta aliunde.
Inoltre non si vedeva perché, quando l’assegno aveva natura risarcitoria, questo cessava, se e quando il coniuge beneficiario passava a nuove nozze: forse il nuovo matrimonio risarciva in toto quello precedente?
Il terzo criterio, infine, appare come una vera e propria fictio: il riferimento al contributo personale ed economico dato da ciascuno dei coniugi alla formazione del patrimonio di entrambi appare come un criterio contabile di dare ed avere, analogo a quanto avviene in caso di scioglimento della comunione legale, senza considerare che il coniuge che abbia un credito nei confronti dell’altro potrebbe ottenerne soddisfazione una tantum e in via ordinaria.
Ma l’inconsistenza della causa dell’assegno appariva in misura maggiore nei casi in cui tutti e tre i criteri erano utilizzati: lungi dal rafforzare la causa dell’assegno, la natura mista ne aumentava la confusione, col risultato che i coniugi debitori dell’assegno spesso lo vedevano come un sopruso.
Come è noto il legislatore è intervenuto, con la L 74/1987, a modificare parte delle disposizioni precedenti, tra cui anche l’art. 5, per cui adesso l’unico effettivo presupposto per la concessione dell’assegno è la circostanza che il coniuge che lo richiede non abbia mezzi adeguati, e con ciò viene finalmente affermata la natura assistenziale dell’assegno divorzile .
Ciò non ha però risolto i problemi interpretativi, perché il legislatore del 1987 ha mantenuto tutti i precedenti criteri, seppur utilizzati solo in funzione quantitativa. Ha anzi reso più difficile il lavoro dell’interprete, che ora deve considerarli necessariamente tutti, e ne ha anche aggiunto un altro: la durata del matrimonio. Recita infatti l’art. 5 L 898/70 :”…il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive.”
La norma è abbastanza chiara: fermo il presupposto, ossia la situazione di difficoltà economica di un coniuge, gli altri criteri intervengono in fase successiva, quando il giudice, dopo aver accertato l’an, deve disporre il quantum. Riprendono allora vigore tutte le considerazioni che abbiamo esposto prima sull’utilizzo contestuale di criteri di natura così eterogenea. Ciò spiega perché, a differenza di quanto avviene per il danno biologico, non esistono “tabelle” di riferimento per la commisurazione dell’assegno divorzile.
La funzione assistenziale viene snaturata e, direi, tradita, specialmente nei casi, rari ma di un certo clamore, di divorzio di coppie particolarmente agiate che comportano un assegno particolarmente alto: un mensile di 10.000 € al mese forse è appena sufficiente ad alcuni a garantire un tenore di vita precedente alla fine del matrimonio, ma socialmente viene sentito come uno schiaffo morale, specialmente da quelle persone il cui fallimento matrimoniale abbia comportato anche un fallimento patrimoniale; in tali casi siamo ben lontani dalla natura assistenziale dell’assegno e più vicini a quello che era l’assegno di “buono uscita” in diritto del lavoro.
Un ulteriore criterio, taciuto dal legislatore ma utilizzato quotidianamente nei tribunali, è la commisurazione al precedente assegno di separazione. In molti tribunali, anzi, questo criterio diventa quello principale, se non l’unico, nella convinzione che il lavoro di interpretazione e di applicazione di tutti i criteri suddetti sia già stato fatto a monte, magari in sede presidenziale; riprova di ciò è la difficoltà ad ottenere una modifica dell’assegno, in senso migliorativo o peggiorativo: un economista direbbe che l’assegno divorzile è anelastico rispetto all’assegno di separazione.
Tutto ciò provoca estrema difficoltà per gli addetti ai lavori e ancor più per i coniugi coinvolti nel calcolare, in ipotesi, quale possa essere l’entità di un eventuale assegno divorzile.
Qualcuno ha addirittura elaborato dei software appositi , ma con scarsi risultati, anche perché si utilizzano come parametri solo il reddito, provenienza geografica, età dei coniugi e durata del rapporto, dati ben precisi che un computer può facilmente elaborare, mentre solo nessun programma potrà mai calcolare il “valore” di un tradimento, o dell’abbandono.
Promettenti appaiono le iniziative di alcuni avvocati che, grazie alla rete, raccolgono dati statistici sull’entità degli assegni concessi nei vari tribunali d’Italia, che possono valere quanto meno come punto di riferimento .
Sarebbe auspicabile in tal senso un intervento del legislatore; senza nulla togliere alla discrezionalità del giudice, strumento indispensabile ed ineliminabile, non sarebbe impossibile stabilire dei “minimi” e dei “massimi”, che sarebbero di ausilio per i giudici, di guida per gli avvocati, e magari di monito per i coniugi.