14 Mag Cassazione penale Sez. II sentenza n. 11509 del 9 marzo 2017
Testo massima n. 1
In tema di valutazione della chiamata in reità o correità in sede cautelare, le dichiarazioni accusatorie rese dal coindagato o coimputato nel medesimo reato o da persona indagata o imputata in un procedimento connesso o collegato, integrano i gravi indizi di colpevolezza di cui all’art. 273, comma primo, cod. proc. pen. – in virtù dell’esplicito richiamo all’art. 192, commi terzo e quarto, operato dall’art. 273, comma primo bis, cod. proc. pen., introdotto dall’art. 11 L. n. 63 del 2001 – soltanto se esse, oltre ad essere intrinsecamente attendibili, risultino corroborate da riscontri estrinseci individualizzanti, tali cioè da attribuire capacità dimostrativa e persuasività probatoria in ordine all’attribuzione del fatto-reato al soggetto destinatario di esse, ferma restando la diversità dell’oggetto della delibazione cautelare, preordinata a un giudizio prognostico in termini di ragionevole e alta probabilità di colpevolezza del chiamato, rispetto a quella di merito, orientata invece all’acquisizione della certezza processuale in ordine alla colpevolezza dell’imputato. [ Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto corretta l’ordinanza del tribunale del riesame di annullamento della misura cautelare applicata all’indagato per rapina, sequestro di persona e furto, in quanto fondata su una chiamata in correità del cugino – già raggiunto da titolo custodiale per gli stessi fatti – non collimante con la circostanza che la scheda telefonica, utilizzata per mantenere i contatti tra il cugino ed il complice e localizzata in luoghi ed orari compatibili con i commessi reati, non era stata rinvenuta nell’abitazione dell’indagato e solo sporadicamete aveva agganciato la relativa cella ].
Articoli correlati
[adrotate group=”23″]