14 Mag Cassazione penale Sez. I sentenza n. 5389 del 7 giugno 1997
Testo massima n. 1
Nell’ipotesi di omicidio tentato, la prova del dolo — ove manchino esplicite ammissioni da parte dell’imputato — ha natura essenzialmente indiretta, dovendo essere desunta da elementi esterni e, in particolare, da quei dati della condotta che per la loro non equivoca potenzialità semantica sono i più idonei ad esprimere il fine perseguito dall’agente. Ciò che ha valore determinante per l’accertamento della sussistenza dell’animus necandi è l’idoneità dell’azione la quale va apprezzata in concreto, senza essere condizionata dagli effetti realmente raggiunti, perché altrimenti l’azione, per non aver conseguito l’evento, sarebbe sempre inidonea nel delitto tentato: il giudizio di idoneità è una prognosi, formulata ex post, con riferimento alla situazione così come presentatasi al colpevole al momento dell’azione, in base alle condizioni umanamente prevedibili del caso particolare. [ Nella fattispecie la Suprema Corte ha ritenuto corretta la motivazione della corte di merito che aveva desunto la volontà omicida dell’imputato dalla natura del mezzo usato — una pistola calibro 38 «special» — dalla zona corporale attinta dal proiettile — regione lombare sinistra con penetrazione nel pacco intestinale e fuoriuscita dal fianco sinistro — dalla distanza ravvicinata tra lo sparatore e la vittima, nonché dalla oggettiva gravità delle lesioni essendosi il ferito salvato solo a seguito di un tempestivo intervento chirurgico ].
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