14 Mag Cassazione penale Sez. V sentenza n. 91 del 17 febbraio 2000
Testo massima n. 1
Benché non sia ipotizzabile una automaticità assoluta tra la attività collaborativa e la libertà del collaborante, il giudice, nel valutare la persistenza delle esigenze cautelari, deve partire dalla constatazione che la attività di collaborazione, riconosciuta proficua in sede di cognizione, costituisce uno di quegli elementi, indicati nell’art. 273 comma 3 c.p.p., e ritenuti dal legislatore idonei a superare la presunzione di persistenza delle predette esigenze in relazione al delitto di cui all’art. 416 bis c.p. o ai delitti commessi con modalità mafiose o per agevolare l’attività di associazioni mafiose. A tanto consegue che la violazione del giudicante deve avere specificamente ad oggetto gli ulteriori eventuali elementi che, nonostante la attività di collaborazione, inducano ad escludere che siano venute meno le originarie esigenze cautelari. [ Nella fattispecie, la Corte, rilevando che nessuno di tali elementi era stato evidenziato dal Tribunale, ha annullato con rinvio l’ordinanza che aveva rigettato la richiesta di revoca della misura cautelare, a suo tempo disposta a carico del soggetto collaboratore di giustizia ].
Articoli correlati
[adrotate group=”23″]