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Art. 335 bis — Disposizioni patrimoniali

Art. 335 bis — Disposizioni patrimoniali

a un pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio, per costringerlo a fare un atto contrario ai propri doveri, o ad omettere un atto dell’ufficio o del servizio [ 328 ], è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni [ 339 ].

La pena è della reclusione fino a tre anni, se il fatto è commesso per costringere alcuna delle persone anzidette a compiere un atto del proprio ufficio o servizio, o per influire, comunque, su di essa [ 339 ].

L’eventuale comma dell’articolo ricompreso fra parentesi quadre è stato abrogato.

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Aggiornato al 1 gennaio 2020
Il testo riportato è reso disponibile agli utenti al solo scopo informativo. Pertanto, unico testo ufficiale e definitivo è quello pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale Italiana che prevale in casi di discordanza rispetto al presente.
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Massime correlate

Cass. pen. n. 14883/2017

Ai fini della configurabilità del reato di minaccia a pubblico ufficiale di cui all’art. 336 cod. pen., le azioni intimidatorie devono essere atte ad ostacolare l’esercizio del complesso di competenze e funzioni del pubblico ufficiale, non assumendo rilevanza lo specifico servizio da questi in concreto svolto. (Fattispecie relativa ad espressioni e condotte minatorie di un automobilista nei confronti di un vigile urbano, impegnato nel servizio scolastico di presidio alle strisce pedonali, che gli aveva intimato verbalmente di spostare l’autovettura contromano e in divieto di sosta).

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Cass. pen. n. 23684/2015

Quando il comportamento aggressivo nei confronti del pubblico ufficiale non sia diretto a costringere il soggetto a fare un atto contrario ai propri doveri o ad omettere un atto dell’ufficio, ma sia solo espressione di volgarità ingiuriosa e di atteggiamento genericamente minaccioso, senza alcuna finalizzazione ad incidere sull’attività dell’ufficio o del servizio, la condotta non integra il delitto di cui all’art. 337 c.p., ma i reati di ingiuria e di minaccia, aggravati dalla qualità delle persone offese, per la cui procedibilità è necessaria la querela. (In applicazione del principio, la S.C. ha escluso la configurabilità del reato di resistenza nelle frasi offensive e minacciose rivolte da una detenuta nei confronti di un’agente di Polizia penitenziaria che, all’esito di una perquisizione espletata senza alcuna opposizione od ostacolo, le aveva contestato il possesso di un numero di lenzuola superiore al consentito).

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Cass. pen. n. 20320/2015

Non integra il delitto di cui all’art. 336 c.p. la reazione genericamente minatoria del privato, mera espressione di sentimenti ostili non accompagnati dalla specifica prospettazione di un danno ingiusto, che sia sufficientemente concreta da risultare idonea a turbare il pubblico ufficiale nell’assolvimento dei suoi compiti istituzionali. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto non integrare l’elemento materiale del reato l’utilizzo dell’espressione “se mi fai la contravvenzione giuro che te la faccio pagare, chiamo il mio avvocato e ti querelo”).

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Cass. pen. n. 7992/2015

In tema di rapporti tra le fattispecie previste dagli artt. 336 e 337 cod. pen., quando la violenza o la minaccia dell’agente nei confronti del pubblico ufficiale è posta in essere durante il compimento dell’atto d’ufficio, per impedirlo, si ha resistenza ai sensi dell’art. 337 cod. pen., mentre si versa nell’ipotesi di cui all’art. 336 cod. pen. se la violenza o la minaccia è portata contro il pubblico ufficiale per costringerlo ad omettere un atto del suo ufficio anteriormente all’inizio di esecuzione. (In applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto immune da censure la decisione di condanna ai sensi degli artt. 81 e 336 cod. pen., con riferimento a condotta consistita nella reiterata pronuncia di frasi intimidatorie nei confronti del comandante dei vigili urbani e poi di altri operanti inviati da quest’ultimo, da parte di soggetto che era stato sorpreso a vendere abusivamente prodotti ittici in strada ed era stato invitato a cessare tale attività, documentata attraverso videoriprese).

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Cass. pen. n. 32705/2014

Ai fini della consumazione del reato di cui all’art. 336 c.p., l’idoneità della minaccia posta in essere per costringere il pubblico ufficiale a compiere un atto contrario ai propri doveri deve essere valutata con un giudizio “ex ante”, tenendo conto delle circostanze oggettive e soggettive del fatto, con la conseguenza che l’impossibilità di realizzare il male minacciato, a meno che non tolga al fatto qualsiasi parvenza di serietà, non esclude il reato, dovendo riferirsi alla potenzialità costrittiva del male ingiusto prospettato. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto penalmente rilevanti frasi intimidatorie pronunciate in stato di ebbrezza e riferite alla prospettazione di un male futuro benchè temporalmente collegato ad un momento in cui l’effetto dell’alcool sarebbe cessato).

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Cass. pen. n. 30175/2013

L’assessore di un ente territoriale riveste la qualifica di pubblico ufficiale relativamente all’esercizio di attività amministrative alle quali partecipa concorrendo alla formazione della volontà dell’ente. (In applicazione del principio, la Corte ha confermato la condanna per il reato di cui all’art. 336 c.p. nei confronti di imputato che aveva minacciato l’assessore di un comune al fine di ottenere il rilascio di permesso a costruire e l’approvazione di convenzione edilizia a lui vantaggiosa).

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Cass. pen. n. 13374/2013

Integra il delitto di ingiuria e non quelli previsti dagli artt. 336 o 337 c.p. il profferire all’indirizzo di agenti di polizia intenti a compiere il proprio dovere una frase dall’apparente contenuto minaccioso di un male non concretamente realizzabile ma tale da integrare offesa ai destinatari mediante manifestazione di disprezzo.

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Cass. pen. n. 5300/2011

In tema di violenza o minaccia a pubblico ufficiale, l’effettivo esercizio di un’azione civile, mediante la notificazione di un atto di citazione o il deposito di un ricorso, non integra gli estremi della violenza o minaccia penalmente rilevante, quand’anche risulti motivato da ragioni strumentali rispetto al diritto vantato, dovendosi distinguere la concreta attivazione del sistema giudiziario attraverso la formulazione di una domanda proposta dinanzi all’autorità giudiziaria, dalla prospettazione di un’azione, civile o penale, con lo scopo di coartare l’altrui volontà ed ottenere un beneficio od un vantaggio non conformi a giustizia. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha escluso il reato di cui all’art. 336 c.p. nella presentazione di un atto di citazione in cui si ipotizzava una responsabilità professionale a carico di un consulente tecnico del P.M., in modo da determinare una situazione di apparente incompatibilità e condizionarne la testimonianza in dibattimento).

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Cass. pen. n. 22453/2009

Non integrano il delitto di resistenza a pubblico ufficiale le espressioni di minaccia rivolte nei suoi confronti, quando le stesse non rivelino alcuna volontà di opporsi allo svolgimento dell’atto d’ufficio, ma rappresentino piuttosto una forma di contestazione della pregressa attività svolta dal pubblico ufficiale, da inquadrare nell’ambito della diversa ipotesi delittuosa di cui all’art. 612, comma secondo, c.p. (Fattispecie in cui un detenuto, reagendo ad un rimprovero rivoltogli da una guardia penitenziaria, inveiva nei suoi confronti minacciandola di “spaccarle la testa”).

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Cass. pen. n. 7482/2008

Ai fini dell’integrazione del delitto di minaccia a pubblico ufficiale di cui all’art. 336 c.p., non è necessaria una minaccia diretta o personale, essendo invece sufficiente l’uso di qualsiasi coazione, anche morale, ovvero una minaccia anche indiretta, purché sussista la idoneità a coartare la libertà di azione del pubblico ufficiale. (Nel caso di specie, la S.C. ha escluso gli estremi della minaccia indiretta ai carabinieri intervenuti su richiesta dell’imputato per far cessare i rumori provenienti da un locale, osservando che la minaccia di farsi giustizia sommaria da sé, con atti inconsulti consistenti nella violenza su cose di terzi, è del tutto generica e inidonea ad incidere sugli atti che i pubblici ufficiali stavano compiendo nell’esercizio delle loro funzioni).

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Cass. pen. n. 34880/2007

Ai fini della consumazione del reato di cui all’art. 336 c.p., l’idoneità della minaccia posta in essere per costringere il pubblico ufficiale a compiere un atto contrario ai propri doveri deve essere valutata con un giudizio ex ante tenendo conto delle circostanze oggettive e soggettive del fatto, con la conseguenza che l’impossibilità di realizzare il male minacciato, a meno che non tolga al fatto qualsiasi parvenza di serietà, non esclude il reato, dovendo riferirsi alla potenzialità costrittiva del male ingiusto prospettato. (Nel caso di specie, la Corte ha osservato che la minaccia ben può assumere le connotazioni del riferimento indiretto o semplicemente allusivo, ritenendo idonea a coartare la libertà morale del presidente di un collegio di Corte di assise di appello la minaccia — peraltro aggravata dalla natura e dal movente mafiosi della condotta — posta in essere nell’ambito di un colloquio volto a condizionare — il giorno precedente la camera di consiglio — la formazione del suo libero convincimento attraverso l’assunzione di un atteggiamento decisorio compiacente o comunque non rigoroso nei confronti degli imputati di un grave delitto di omicidio, in quanto esponenti di rilievo di un’associazione criminale di stampo mafioso).

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Cass. pen. n. 18282/2007

Ai fini della configurabilità del reato di violenza o minaccia a pubblico ufficiale, non costituisce minaccia idonea a coartare la volontà di quest’ultimo la pronuncia della frase «se mi fate il verbale, poi vediamo» profferita all’indirizzo di agenti di polizia da conducente di motoveicolo rifiutatosi di esibire i documenti che ne comprovassero la proprietà.

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Cass. pen. n. 5777/2007

La raccomandazione ad un docente universitario per il superamento degli esami da parte di uno studente, in genere irrilevante sul piano penale, assume la consistenza di una condotta illecita, che può dar luogo alla commissione del reato di cui all’art. 336 c.p., quando è accompagnata da comportamenti che esulano la semplice segnalazione e sfociano nella pressione illecita. (In applicazione di tale principio, la Corte ha ritenuto corretta la configurazione del reato di violenza e minaccia a pubblico ufficiale, nella specie aggravato ai sensi dell’art. 7 L. n. 203 del 1991, nelle raccomandazioni effettuate a docenti universitari da studenti, associati alla malavita locale, in favore di propri colleghi, realizzate con atteggiamenti di controllo dell’adesione alla segnalazione mediante la presenza allo svolgimento degli esami e con modalità tali da far prospettare la minaccia di conseguenze ritorsive ad opera di associazioni criminali operanti nell’ambiente universitario)

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Cass. pen. n. 4932/2006

Nel caso di minaccia ad un testimone, sussiste il reato di minaccia per costringere a commettere un reato (art. 611 c.p.) e non il reato di minaccia a un pubblico ufficiale previsto dall’art. 336 c.p. quando non vi sia certezza dell’avvenuta assunzione formale della qualità di testimone in seguito a regolare citazione.

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Cass. pen. n. 12188/2005

Quando il comportamento di aggressione all’incolumità fisica del pubblico ufficiale non sia diretta a costringere il soggetto a fare un atto contrario ai propri doveri o ad omettere un atto dell’ufficio, ma sia solo espressione di volgarità ingiuriosa e di atteggiamento genericamente minaccioso, senza alcuna finalizzazione ad incidere sull’attività dell’ufficio o del servizio, la condotta violenta non integra il delitto di cui all’art. 336 c.p., ma — una volta abrogato il delitto di oltraggio di cui all’art. 341 c.p. — i più generali reati di ingiuria e di minaccia, aggravati dalla qualità delle persone offese, per la cui procedibilità è necessaria la querela.

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Cass. pen. n. 7346/2004

Nel delitto di cui all’art. 336 c.p. l’atto contrario ai doveri di ufficio non fa parte dell’elemento oggettivo del reato, ma di quello soggettivo e più precisamente del dolo specifico che attiene alla finalità che l’agente si propone con il suo comportamento. Ne consegue che se l’agente agisce con minaccia e con l’intenzione di attaccare il pubblico ufficiale per costringerlo a fare un atto contrario ai propri doveri od omettere un atto dell’ufficio, il delitto è consumato sia che l’attività commissiva o l’omissione cui è finalizzata l’azione dell’agente siano state già realizzate sia che ancora debbano esserlo. (In applicazione di tale principio, la Corte ha ravvisato il delitto indicato nella minaccia diretta a due agenti della polizia municipale per costringerli ad omettere l’inoltro alla Procura della Repubblica della notitia criminis concernente taluni abusi edilizi, poi risultata già inviata dagli stessi nei giorni precedenti).

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Cass. pen. n. 48541/2003

La distinzione tra il delitto di violenza o minaccia a pubblico ufficiale (art. 336 c.p.) e quello di resistenza (art. 337 c.p.) risiede nel finalismo dell’azione violenta o minacciosa, che nel primo caso mira a coartare la volontà del pubblico ufficiale affinchè compia un’azione od una omissione contrarie ai doveri del suo ufficio, mentre nel secondo caso, ferma restando la libertà di determinazione del soggetto passivo, è diretta ad impedire il compimento dell’atto doveroso.

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Cass. pen. n. 39090/2003

Il comportamento del pubblico ufficiale che usa minacce per costringere un collega del suo ufficio a mostrargli determinati documenti, configura solo il delitto di minaccia, in quanto la pretesa di prendere visione dei documenti non è un’attività rientrante nei compiti del pubblico ufficiale ed il diverbio ha ad oggetto un dissenso sulle modalità di gestione di determinate pratiche e costituisce solo l’occasione per l’azione minacciosa, non finalizzata a costringere ad omettere un atto dell’ufficio.

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Cass. pen. n. 31408/2003

Il vigile urbano che trovandosi ad espletare un controllo sulla regolarità degli scarichi delle acque reflue, prende notizia di violazioni relative all’attività urbanistico-edilizia, ha l’obbligo di prendere notizia del reato in quanto ai sensi dell’art. 4 legge 28 febbraio 1985 n. 47 ha poteri di polizia giudiziaria in tale materia e quindi qualora l’attività gli venga impedita con violenza o minaccia l’autore risponde del delitto di violenza o minaccia a pubblico ufficiale.

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Cass. pen. n. 24624/2003

È configurabile il delitto di cui all’art. 336 c.p. — in quanto reato di mera condotta assistita da dolo specifico, ad integrare il quale è sufficiente l’uso di qualsiasi coazione, anche indiretta, purché idonea a comprimere la libertà d’azione del pubblico ufficiale — nel fatto di colui che, per impedire al dipendente dell’esattoria, incaricato del pignoramento conseguente al mancato pagamento di numerosi avvisi di mora, liberi nel giardino della propria abitazione, due grossi cani da presa, rifiutandosi di legarli o allontanarli.

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Cass. pen. n. 20287/2001

Integra la condotta del reato di violenza o minaccia a un pubblico ufficiale (art. 336 c.p.) anche il comportamento con il quale l’agente minacci di privarsi della vita per ritorsione a un atto legittimo, quando la minaccia sia idonea a intralciare la pubblica funzione, atteso che il male prospettato nella forma dell’autolesionismo è ingiusto.

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Cass. pen. n. 2675/1998

Integra il reato di violenza a pubblico ufficiale di cui all’art. 336, primo comma, c.p., l’azione violenta di alcuni consiglieri comunali diretta ad impedire al sindaco di presiedere la seduta del consiglio comunale.

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Cass. pen. n. 95/1998

L’idoneità della violenza o minaccia ad intimidire ed a costringere un pubblico ufficiale deve essere verificata in relazione alla singola fattispecie e l’indagine in concreto deve necessariamente svolgersi nell’ambito delle seguenti coordinate: coefficiente di gravità del male prospettato; apparenza di serietà ed eseguibilità della forma, del tempo, del luogo e delle modalità dell’azione; personalità del soggetto attivo e suoi eventuali precedenti penali; condizioni psicologiche del soggetto passivo. (Fattispecie consistente nella minaccia di un detenuto di autolesionarsi con una lametta qualora non fosse stato fatto uscire dalla sua cella).

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Cass. pen. n. 797/1996

Alle guardie giurate compete la qualifica di incaricato di pubblico servizio allorché svolgano attività complementare a quella, loro istituzionalmente affidata, di vigilanza e custodia delle proprietà immobiliari e mobiliari. Ne consegue che la minaccia nei loro confronti integra il reato di cui all’art. 336 c.p. (Fattispecie nella quale due guardie giurate, in servizio di prevenzione di reati contro il patrimonio, avevano sorpreso, nell’immediatezza di un furto di armi comuni da sparo, l’imputato che, per impedir loro di arrestarlo, li aveva minacciati a mano armata).

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Corte cost. n. 314/1995

È giustificata la pena edittale minima di mesi sei di reclusione comminata dall’art. 336 c.p. per la violenza o minaccia a pubblico ufficiale, sia in sé considerata che in rapporto a quella, sensibilmente più lieve, prevista dall’art. 610 c.p. per la violenza privata, in quanto, innanzitutto, in questa seconda ipotesi non si riscontra quell’elemento teleologico, di notevole gravità, consistente nel costringere il soggetto passivo a compiere un atto contrario ai propri doveri d’ufficio o ad omettere un atto di ufficio. A differenza poi della sanzione minima edittale prevista per l’oltraggio a pubblico ufficiale, ritenuta eccessiva dalla sent. n. 341 del 1994 perché costituente un unicum generato dal codice penale del 1930, frutto di una concezione autoritaria e sacrale dei rapporti fra pubblici ufficiali e cittadini tipica di quell’epoca storica, la pena minima per la violenza o minaccia a pubblico ufficiale era già nel c.p. del 1889, all’art. 187, assai più severa delle blande sanzioni previste per l’oltraggio. Nell’ipotesi di accoglimento del petitum del giudice a quo, infine, si assimilerebbe il trattamento sanzionatorio dell’oltraggio a quello della violenza o minaccia, in aperto contrasto con la evidente maggiore lesività della seconda ipotesi delittuosa rispetto alla prima. (Non fondatezza della questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma, 97 Cost., dell’art. 336 c.p.).

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Cass. pen. n. 2729/1993

In tema di rapporti tra le ipotesi delittuose previste dagli artt. 336 e 337 c.p., mentre la fattispecie tipica della resistenza consiste nella illecita reazione, posta in essere per sottrarsi ad un atto che il pubblico ufficiale sta compiendo, quella del reato di cui all’art. 336 c.p. consiste nel cercare di coartare comunque la volontà del pubblico ufficiale per costringerlo a non compiere un atto del proprio ufficio o servizio, ovvero a non portarlo a termine, se già iniziato. (Fattispecie in cui l’imputato non solo aveva cercato di intimorire dei pubblici ufficiali, aizzando la folla contro di loro, al fine di costringerli a non portare a termine un controllo da loro iniziato, ma aveva altresì usato violenza contro i medesimi, divincolandosi con gomitate e strattoni, per opporsi a tale controllo; la Cassazione ha ritenuto che rettamente il giudice di merito avesse ravvisato in tale comportamento gli estremi di entrambe i reati suddetti ed ha enunciato il principio di cui in massima).

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Cass. pen. n. 2305/1993

Ai fini dell’integrazione del delitto di cui all’art. 336 c.p., costituisce minaccia idonea a coartare la volontà del pubblico ufficiale e non semplicemente ad offenderne l’onore ed il prestigio, la frase «se volete la guerra, guerra sia» pronunciata all’indirizzo del pubblico ufficiale. (Nella specie detta frase era stata pronunciata all’indirizzo di un carabiniere che stava procedendo al sequestro di un motoveicolo).

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Cass. pen. n. 8008/1993

L’efficacia intimidatrice di una frase, che la fa qualificare, a seconda dei casi, come reato di cui all’art. 336, o all’art. 337 ovvero all’art. 612 c.p., è direttamente proporzionale all’attuabilità del danno, che ne formi oggetto. Di conseguenza, se il male minacciato si presenta ex se, non concretamente realizzabile, non è configurabile alcuna aggressione, penalmente rilevante, alla sfera psichica del soggetto passivo. Se, però, il profferire alcune parole apparentemente minacciose manifesta, e raggiunge, l’intento dell’agente di esprimere il proprio disprezzo per l’interlocutore, esso integra, a seconda dei casi, gli estremi del reato di cui all’art. 341 o di quello di cui all’art. 594 c.p. (Nella specie la Cassazione ha ritenuto che la minaccia dell’imputato di sodomizzare gli agenti operanti non presentasse alcuna oggettiva attitudine ad intimorire, ma costituisse una plateale offesa al loro prestigio e, dunque, integrasse il reato di cui all’art. 341 c.p.).

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Cass. pen. n. 7573/1993

In tema di rapporti tra le ipotesi delittuose previste dagli artt. 336 e 337 c.p. allorquando la violenza o la minaccia realizzata dall’agente nei confronti del pubblico ufficiale è usata durante il compimento dell’atto d’ufficio, per impedirlo, si ha resistenza ai sensi dell’art. 337 c.p., mentre si versa nell’ipotesi di cui all’art. 336 c.p. allorquando la violenza o la minaccia è portata contro il pubblico ufficiale per costringerlo ad omettere un atto del suo ufficio anteriormente all’inizio di esecuzione del medesimo.

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Cass. pen. n. 3316/1988

Il delitto di violenza a pubblico ufficiale non ha come sua obiettività giuridica la tutela della incolumità fisica del pubblico ufficiale, bensì la libertà del medesimo al compimento degli atti del suo ufficio. Integra, pertanto, il delitto de quo qualsiasi comportamento palesemente o intenzionalmente aggressivo, idoneo a generare timore e a limitare la libertà morale del soggetto passivo. (Nella specie è stato ritenuto delitto di cui all’art. 336 c.p. l’aver sparato un colpo di pistola contro un carabiniere in servizio di controllo, senza colpirlo e senza intenzione di colpirlo, colpo valutato come idoneo a far desistere il milite dal compimento di un atto del suo ufficio).

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Cass. pen. n. 5414/1986

Il reato di violenza o minaccia a pubblico ufficiale è ravvisabile anche nella ipotesi di minaccia ad un testimone, il quale riveste indubbiamente quella qualifica col solo fatto della sua citazione, non necessariamente dopo la prestazione del giuramento di rito, e la mantiene prima, durante e dopo l’esame, alla presenza o meno del giudice.

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Cass. pen. n. 10005/1985

Il delitto, di cui all’art. 336 c.p., è reato di mera condotta assistita da dolo specifico e si consuma indipendentemente dal raggiungimento dello scopo prefissosi dal reo o dalla possibilità, in concreto, da parte del pubblico ufficiale di soddisfare l’intimazione ogni volta che l’atto o il fatto richiesto concerne l’attività amministrativa dell’ente al cui servizio è svolto il lavoro del pubblico ufficiale.

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Cass. pen. n. 8244/1983

Il delitto di tentato omicidio e di violenza a pubblico ufficiale concorrono tra loro, essendo evidente la loro diversa oggettività e la diversità dei beni tutelati dalle rispettive norme incriminatrici.

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Cass. pen. n. 7097/1981

Il reato di violenza o minaccia a pubblico ufficiale non può ritenersi assorbito in funzione di aggravante nella complessa figura del delitto di evasione aggravato dall’aver commesso il fatto usando violenza o minaccia verso le persone, giacché la violenza e la minaccia considerate in detta ipotesi di evasione aggravata rispondono alle previsioni generiche dei reati di percosse e minacce e non pure alle previsioni specifiche contemplate da altre disposizioni di legge che si differenziano per la finalità cui è diretta la condotta del violento o dell’intimidatore. *
Nel delitto di violenza o minaccia a pubblico ufficiale, la violenza o la minaccia costitutiva del reato viola un bene giuridico specifico, e cioè l’interesse dello Stato al normale funzionamento e al prestigio della pubblica amministrazione, oltre quello concernente la libertà morale e l’incolumità fisica dell’individuo, ed inoltre, il soggetto passivo di tale reato è essenzialmente un pubblico ufficiale.

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Cass. pen. n. 1049/1972

Per la sussistenza del reato di cui all’art. 336 c.p. è necessaria la coscienza e la volontà di usare la violenza o la minaccia per il fine, propostosi dall’agente, di costringere il pubblico ufficiale a fare un atto contrario ai propri doveri o ad omettere un atto dell’ufficio o del servizio, fine che indica il dolo specifico che determina l’azione, non essendo necessario che la violenza consegua l’effetto di impedire in modo definitivo l’esplicazione della pubblica funzione o del servizio in relazione a un oggetto determinato.

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