Art. 1368 – Codice civile – Pratiche generali interpretative
Le clausole ambigue s'interpretano secondo ciò che si pratica generalmente nel luogo in cui il contratto è stato concluso.
Nei contratti in cui una delle parti è un imprenditore, le clausole ambigue s'interpretano secondo ciò che si pratica generalmente nel luogo in cui è la sede dell'impresa [2083].
Le parole ricomprese fra parentesi quadre sono state abrogate.
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Massime correlate
Cass. civ. n. 33451/2021
Nell'interpretazione del contratto, il primo strumento da utilizzare è il senso letterale delle parole e delle espressioni adoperate, mentre soltanto se esso risulti ambiguo può farsi ricorso ai canoni strettamente interpretativi contemplati dall'art. 1362 all'art. 1365 c.c. e, in caso di loro insufficienza, a quelli interpretativi integrativi previsti dall'art. 1366 c.c. all'art. 1371 c.c.
Cass. civ. n. 19493/2018
Quando il senso del contratto o di una sua clausola sia rimasto oscuro o ambiguo nonostante l'utilizzo dei principali criteri ermeneutici (letterale, logico e sistematico), deve trovare applicazione il principio della conservazione degli effetti utili del contratto, previsto dall'art. 1367 c.c.; ne consegue che qualora le espressioni contenute nel contratto siano ritenute inidonee a consentire una inequivoca interpretazione, si deve comunque accertare se le contrapposte versioni delle parti siano corredate da buona fede, valutandone il comportamento complessivo, tenendo conto anche degli effetti, con il limite comune agli altri criteri sussidiari, secondo cui la conservazione del contratto non può mai comportare una interpretazione sostitutiva della volontà delle parti, dovendo in tal caso il giudice dichiarare, ove ne ricorrano gli estremi, la nullità del contratto o della clausola (Nella specie la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva interpretato una clausola contrattuale, che prevedeva la facoltà di recesso solo in caso di colpa grave, nel senso di privarne del tutto la produzione di effetti).
Cass. civ. n. 9341/2016
Il silenzio è un comportamento di per sé neutro; è solo il contesto normativo preesistente che può attribuirgli un particolare significato. Secondo quanto l'art. 1368, comma 2, c.c., dispone per l'interpretazione dei contratti, "le clausole ambigue s'interpretano secondo ciò che si pratica generalmente nel luogo in cui il contratto è stato concluso". E il silenzio è appunto un comportamento ambiguo che può assumere un significato convenzionale solo in ragione del contesto anche normativo proprio del luogo e del momento. E' certo possibile che una legge sopravvenuta privi di effetti una determinata convenzione contrattuale, ammessa nel momento in cui fu stipulata ma non è possibile che una norma sopravvenuta ascriva al silenzio delle parti un significato convenzionale che le vincoli per il futuro in termini diversi da quelli definiti dalla legge vigente al momento della conclusione del contratto. Né vale osservare, come pure si è fatto, che le parti, consapevoli del sopravvenuto mutamento legislativo, possono rinnovare la convenzione, perché la conclusione della nuova convenzione richiederebbe il consenso di tutti gli stipulanti, anche di quelli eventualmente interessati al mantenimento del vincolo precedente. Non è possibile dunque che al silenzio tenuto dalle parti nel momento in cui la convenzione fu stipulata venga attribuito un significato diverso da quello che vi ascriveva la legge vigente al momento della stipulazione.
Cass. civ. n. 6601/2012
In tema di interpretazione del contratto, gli "usi interpretativi", di cui all'art. 1368 c.c., costituiscono un criterio ermeneutico di carattere oggettivo e, sussidiario, il quale presuppone, secondo l'espresso tenore letterale della stessa disposizione (che riferisce l'applicabilità di tale criterio alle "clausole ambigue"), una persistente incertezza in ordine all' identificazione dell'effettiva volontà delle parti, rimanendo, pertanto, escluso allorché questa risulti determinata o determinabile, senza margini di dubbio, attraverso l'adozione di prioritari criteri legali di ermeneutica, come quelli (artt. da 1362 a 1365 c.c.) che regolano l'interpretazione soggettiva (o storica) del contratto. Avendo, inoltre, dette pratiche interpretative carattere negoziale e non normativo, è onere della parte dedurre l'esistenza, il contenuto e la non corretta applicazione di determinati usi, che siano stati oggetto di specifica allegazione nel giudizio di merito.
Cass. civ. n. 6752/1991
Il ricorso agli «usi interpretativi», che non hanno valore di fonte normativa ma funzione di criterio ermeneutico di carattere sussidiario, presuppone, secondo l'espresso tenore letterale dell'art. 1368 c.c. (che riferisce l'applicabilità di tale criterio alle «clausole ambigue»), una persistente incertezza in ordine all'identificazione dell'effettiva volontà delle parti ed è pertanto escluso allorché questa risulti determinata o determinabile, senza residui margini di dubbio, attraverso l'adozione di prioritari criteri legali di ermeneutica, come quelli (artt. da 1362 a 1365 c.c.) che regolano l'interpretazione soggettiva (o storica) del contratto. (Nella specie, l'impugnata sentenza — confermata dalla S.C. — aveva ritenuto, in particolare, che la clausola dell'accordo intercorso fra datore di lavoro e lavoratore, relativa alla riduzione dell'orario di lavoro ed alla conservazione della precedente retribuzione, non implicasse un accrescimento del livello retributivo ai fini della determinazione dell'indennità di anzianità).
Cass. civ. n. 839/1984
La prassi aziendale — che costituisce un mezzo interpretativo utilizzabile dal giudice ai fini della ricostruzione del contenuto e degli effetti di un negozio — è riconducibile alla categoria degli usi negoziali odi fatto, i quali, se prescindono dai requisiti della generalità e dell'opinio iuris seu necessitatis, propri degli usi normativi, presuppongono pur sempre l'accertata reiterazione di determinati comportamenti.
Cass. civ. n. 5943/1981
Gli usi interpretativi o negoziali costituiscono un mezzo di chiarimento e di interpretazione della volontà delle parti contraenti soltanto quando questa sia ambiguamente espressa o manchino i relativi patti.
Cass. civ. n. 2953/1973
L'esistenza di un uso negoziale deve essere valutata non in relazione ad un caso di specie, ma alla prassi generale delle diverse aziende che in materia operano in una determinata zona.